PER UNA PRATICA DI POETICA
di Giada Primavera
(poeta)
Uno dei tre moniti di Giorgio Bocca ai suoi praticanti era: ‘Sii di parte’.
Voleva dire che, dal momento in cui hai compiuto il movimento dentro (la fermezza, nelle scelte), puoi permetterti il movimento fuori (il coraggio, nelle azioni).
E in questo periodo di marcato, incattivito, incancrenito fazionismo, il senso della ‘parte’ di bocchiana memoria fa risplendere un fiero raggio.
E l’Arte, forse, è la parte della parte.
Quella dell’essere umano che si salva o che ci salverà…
All’Arte è richiesto di soddisfare, rappresentare, descrivere, esemplificare, esprimere, funzionare come un sistema simbolico denso, sintatticamente e semanticamente. E lo straordinario finale è il così detto merito estetico.
La poesia, poi, è essere carne nella luce: non trovo definizione migliore.
Nell’eterna socratica lotta tra il Bene (la Filosofia, l’Armonia del Pensiero) e il Male (La Poesia), quest’ultimo era scarso… d’Universale (castrato): perché il poeta, a differenza del filosofo, sa che l’Assoluto è fragile e chi lo voglia inguaiare in una metodologia commette l’atto impuro del giudizio e della limitazione. Perché l’Assoluto non è nella vita, il poeta sì.
Il suo è un Logos disperso nella misericordia – dice l’amatissima Maria Zambrano – cioè che va a coloro che ne abbisognano maggiormente.
(E questa, credo, sia un’affermazione estendibile a tutte le arti.)
Ma la poesia non ha nemmeno troppa necessità di ritenersi indispensabile, dopo tutte le ingiurie platoniche ricevute, quale menzogna da furore bacchico, priva di giustizia e verità.
Ecco perché il poeta non ha paura.
Però, questi atavici insulti, più o meno conditi, sono arrivati fino ai giorni nostri.
Giorni in cui chi studia e ricerca non può essere anche artista e, tanto meno, critico e, tanto meno, politico (e il Sommo Poeta?).
Basta!
L’icona dello scrittore da abat-jour, geniale eppur sfigato onanista d’infiniti spazi, deve essere arricchita: c’è pure quello/a che ruggisce.
Perché conoscere è trasformare (noi stessi e, senza accorgersene, il mondo) e non incurvarsi nelle mucillagini di un’erudizione che non comprende sorriso.
Secondo la maggior parte dei detentori del potere simposiale precostituito, delle cattedre e dei maestri votati e votanti, l’artista è preso dalla thèia dùnamis e, quindi, figurati se, ‘mbriaco di possessione, si mette a studiare a ricercare a darsi un senso! Le tesi di laurea, poi, sono ‘luoghi’ propri di norme fondanti – e non ‘servono’ agli artisti e men che meno ai poeti – e giudicabili da pubblici ufficiali, insigniti di sacra gobba spocchia.
Ancora, c’è l’orda barbara di certe case editrici che, se sviluppi un pensiero autonomo e ne fai teoria, se la fanno sotto chiedendo indici, nomi di relatori e correlatori, curriculum, specialistiche, gruppo sanguigno del padre e della madre.
Poi, nell’Accademia c’è chi ha lottato ed è stanco e, se gli dici di lottare ancora, lo fa in un modo tutto suo. Giustamente.
E questo è il punto.
L’epidemia, in realtà, ha fatto di alcuni di noi dei poeti: nella consapevolezza della fragilità dell’essere umano, poco si teme, ma si cercava prima, si cerca ora – o si impara a farlo – e si continua a cercare, tentando l’arte ormai della noncuranza, della indifferenza nei confronti dei perfettissimi di ruolo, di coloro che hanno studiato e verificato le fonti, le condotte, gli stati e le necessità, ma che hanno anche puntato il dito, perché i poeti sfuggivano, liberi, e, perciò, andavano confinati.
Ma per essere poeta o per essere artista non basta farlo – il poeta o l’artista; è, per così dire, una feroce, orgogliosa pratica della vita che non si vende per quattro soldi, anche se le hanno dato di puttana.
Per questo, non possiamo chiedere a chi fa l’artista di esserlo ovvero di battersi; chi lo è, non ha bisogno di essere incitato a farlo: basti l’esempio di Antonio Bilo Canella per riempirci di energia eternata.
Piuttosto ‘preparare l’esilio’, ma non nascere e coltivarsi in esso.
Ne vien fuori un’ultima considerazione: non chiediamo ai professori, a quelli più esposti, ai vecchi e nuovi eroi di opporsi: cominciamo a rischiare noi – come abbiamo fatto, ognuno a suo modo.
Perché, in fin dei conti, avere o non avere seguito, risposta, coesione non è cosa che interessa ai poeti: loro non sono Frenhofer (colui che ragiona nel recinto della sua mente) di Balzac; non vendono i figli alle sagre per una puntura e la concessione di uno spettacolo all’aperto; sono esseri indipendenti, alcuni malati, altri – ora – disoccupati, impavidi, ogni tanto incazzati, che coltivano il loro, in certi casi, altèro silenzio sonoro.